venerdì 16 agosto 2019

Trump, la Groenlandia. E sullo sfondo la Cina.

La richiesta di Trump di acquistare la Groenlandia è stata letta da stampa e tv come l'ennesima grossolana sparata dell'inquilino della Casa Bianca. E' fuor di dubbio che le modalità dell'annuncio prestino il fianco ad un simile atteggiamento, ma liquidarle con una risata sarebbe atteggiamento quanto mai da evitare. Trump va preso sul serio, perché seria (e pericolosa) è la sua politica estera, soprattutto per quanto riguarda il confronto sempre più minaccioso con la Cina popolare.

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Ed è proprio questo il contesto che va tenuto presente: negli ultimi anni Pechino ha rivolto un crescente interesse nei confronti dell'Artico, definendosi  «nazione prossima all'Artico» e integrando la regione polare nella Belt and Road, suscitando frequenti allarmi nelle stanze del Pentagono.
Nel 2017 il governo cinese ha pubblicato il libro bianco "China’s Arctic Policy". Pechino delinea in sostanza i fronti nel suo impegno artico, a partire proprio dalla “Polar Silk Road”, vale a dire la possibilità di sfruttare le vie marittime artiche, a causa del riscaldamento – la distesa di ghiaccio a settembre 2017 era inferiore del 25% rispetto alla media di fine estate 1981- 2010 – per raggiungere l’Europa in tempi più brevi e ricongiungersi con i corridoi ferroviari già esistenti. Inoltre la regione artica è ricca di risorse minerarie che ancora devono essere sfruttate e potrebbero rappresentare per Pechino una alternativa energetica alle rotte esistenti: secondo le stime dello US Geological Survey il 25% di risorse mondiali si concentra sotto i fondali dell’oceano Artico contando 375 miliardi di barili di greggio e 47,3 triliardi di metri cubi di gas; siamo oltre, quindi, le riserve di oro nero dell’Arabia Saudita e di gas del Qatar messi insieme.

Pechino guarda lontano come  mostrano le considerazioni di Liu Pengfei, portavoce dell’Amministrazione cinese per la sicurezza marittima: «Ci saranno navi battenti bandiera cinese che percorreranno questa rotta in futuro. Una volta che sarà comunemente usata, cambierà radicalmente il trasporto marittimo globale e avrà una profonda influenza sul commercio internazionale, sull’economia mondiale, sui flussi di capitale e sullo sfruttamento delle risorse». Proprio la Groenlandia, in tempi recenti, è stata al centro dei tentativi di ingresso cinesi con il finanziamento (poi bloccato) di tre nuovi aeroporti.

La conclusione è semplice: il presidente Trump ha segnalato che si è aperto un altro fronte sul terreno del confronto con Pechino.

Diego Angelo Bertozzi

venerdì 19 luglio 2019

Il sogno esplosivo del Mandarino che volle raggiungere la Luna

Il 2011 si è chiuso con l'ingresso della Cina nel ristretto novero delle potenze spaziali accanto a Russia e Stati Uniti. La pubblicazione a fine dicembre da parte di Pechino del «Libro bianco sulle attività spaziali» delinea, infatti, un ambizioso programma quinquennale: entro il 2013 una sonda sarà inviata sulla Luna per esplorarne la superficie a fini di studio in vista del "grande balzo" del 2016, che dovrebbe portare il primo astronauta cinese ad aggiungere le sue orme sul satellite a quelle degli statunitensi Neil Armstrong e Buzz Aldrin della missione Apollo 11 dell'ormai lontano 1969.

Ma non è tutto. Nel programma si fa strada anche l'ipotesi di un viaggio verso Marte, per il quale si valuterà nei prossimi anni la possibilità di una missione completamente «made in China». Quello del Celeste Impero - definizione che oggi si potrebbe a maggior ragione recuperare - è un programma così serio che il «New York Times» lo ha presentato come un «approccio che offre lezioni alle altre potenze spaziali». La Cina - che dal 2006 ad oggi ha effettuato sessantasette lanci, mandato in orbita ottanta cosmonauti, più di settanta satelliti, due sonde lunari, due astronavi e una piattaforma orbitale - riprende un cammino iniziato molto tempo fa, quando a regnare erano ancora gli imperatori «Figli del Cielo».

Proprio alla Cina, infatti, si deve uno dei primissimi tentativi di raggiungere la Luna, nel nome di un sogno antico quanto i primi sguardi dell'uomo verso il nostro satellite. E antichi, tanto da si ritiene che il primo astronauta della storia sia apparso alla fine del XVI secolo sotto le sembianze di un funzionario e letterato cinese - un classico Mandarino con sulle spalle il peso del governo di uno sterminato impero - della celebre dinastia Ming (1368 - 1644). Wan Hu, questo il suo nome, ossessionato dall'idea di raggiungere la Luna, decise di tentare un'impresa impossibile, ma che a lui sembrava realizzabile a patto di sfruttare fino in fondo la tecnologia cinese del tempo.
Giornale di Brescia, 7 gennaio 2011
essere confusi tra storia e leggenda, sono i tentativi eseguiti, o solo immaginati, con i mezzi più disparati, figli di una spregiudicata intelligenza. Talmente lontani, che

Così si legò a una sedia in vimini collegata a quarantasette razzi in bambù riempiti di polvere da sparo, dei più grossi e potenti che si potessero trovare, e poi con entrambe le mani si tenne aggrappato a un aquilone gigantesco. Tutto era pronto e al suo segnale i quarantasette servitori, provvisti di torce, accesero i razzi. Ma il tentativo non riuscì. Anzi, finì proprio male: l'esplosione fu enorme e del funzionario non rimase alcuna traccia. Poco prima pare avesse detto a un servitore: «Oggi voglio scoprire un nuovo modo di esplorare il cielo, anche se potrei essere fatto a pezzi. Non aver paura, accendi!».


L'insuccesso e la scomparsa del temerario Mandarino non hanno però scalfito il sogno lunare e il tentativo di Wan Hu è rimasto, per appassionati e astronomi, uno dei simboli della corsa allo spazio. Negli anni Settanta, infatti, l'Unione Internazionale di Astronomia ha dato il suo nome a un cratere della superficie lunare, situato sulla faccia nascosta del satellite, poco più a sud-ovest dell'enorme cratere Hertzsprung e a nord-est di quello Paschen. E anche uno dei padri della tecnologia moderna legata all'esplorazione spaziale come Wernher Von Braun - direttore del Marshall Center della Nasa e poi fondatore nel 1975 del National Space Institute - ricorda che in gioventù tentò qualcosa di simile a quanto fatto da Wan Hu, attaccando una dozzina di razzi a un carretto. Ma, a differenza del suo predecessore asiatico, non se la sentì di salirci sopra e la carretta partì da sola verso l'insuccesso. Una rinuncia che bene simboleggiava il passaggio dall'era della temerarietà e dei tentativi più azzardati, a quella più prosaica e rigorosa della scienza spaziale e delle agenzie governative. Il prossimo Wan Hu, quindi, non indosserà lo sgargiante e ingombrante abito di funzionario imperiale, ma una moderna tuta spaziale; non avrà alle spalle sprovveduti servitori, bensì l'apparato tecnologico e scientifico di un intero Paese.

Diego Angelo Bertozzi

Giornale di Brescia, 7 gennaio 2011

mercoledì 3 aprile 2019

Ricalibrare la Belt and Road: verso una regolamentazione?

In vista del prossimo forum internazionale in programma a fine aprile (il primo si è tenuto nel maggio del 2017), Pechino prosegue lungo quello che abbiamo definito il "processo di apprendimento" a riguardo della Belt and Road Initiative.

Ci sono pochi dubbi sul fatto che il biennio 2017-2018 sia stato caratterizzato da successi per ciò che conosciamo come "Nuova via della seta", determinandone la sua espansione a livello globale (Artico ed America Latina ne fanno ormai parte), tanto da ottenere l'adesione formale di ormai un'ottantina di Paesi e, tra questi, l'Italia. Successi che non possono nascondere tuttavia problemi emersi e critiche (a volte interessate) diffuse.

Proprio per questo Pechino ha iniziato a rivedere e riformulare la sua iniziativa, ridiscutendo alcuni progetti con Paesi appesantiti da debiti, aprendola alla partecipazione di Paesi terzi e iniziando a definire un quadro giuridico per la risoluzione di controversie. In questo quadro di "rimodulazione" e "assestamento" si inserisce quanto riferito dall'agenzia Bloomberg: la Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma starebbe lavorando ad una definizione dei progetti che possono essere inclusi nell'ambito Bri ed ufficialmente riconosciuti dal governo, così da evitare un uso proprio del nome tale da incrinarne la reputazione.

lunedì 25 marzo 2019

Afghanistan e Via della seta... Washington permettendo

Si fa sempre più evidente e globale l'opposizione degli Stati Uniti alla cinese Belt and Road Initiative. Lo dimostra quanto accaduto recentemente in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite in occasione del voto per l'estensione del mandato della missione in Afghanistann (UNAMA). Washington ha infatti impedito che nella risoluzione (venisse fatta esplicita menzione della Belt and Road in riferimento alla ricostruzione delle infrastrutture del Paese. Le risoluzioni di estensione del 2016 e del 2017, invece, citavano espressamente l'iniziativa cinese.

Da tempo Kabul mostra forte interesse per gli sviluppi della Bri, nello specifico nei confronti del Corridoio economico Cina-Pakistan (progetti per 60 miliardi di dollari), come possibile via per tornare a rappresentare un centro di collegamento commerciale tra l'Asia meridionale, centrale, orientale ed occidentale.
Il 2016 si è rivelato, in questo senso, particolarmente importante: oltre alla firma del Memorandum of Understanding tra Kabul e Pechino, è giunto nella città afghana di Hairatan, partendo dai dintorni di Shanghai, il primo treno merci cinese al termine di un viaggio durato due settimane e lungo tremila chilometri, attraverso Kazakistan e Uzbekistan. L'anno successivo Kabul ha fatto ingresso nella Asian Investment Infrastructure Bank, mentre nel 2018 ha ospitato il Forum dei sindaci delle città lungo la Via della seta".

Oltre a questo la stabilizzazione dell'Afghanistan è una priorità per Pechino, proprio per non creare problemi lungo una asse fondamentale della Belt and Road. Lo ricorda un rapporto dell'European Council on Foreign Relations: "la principale preoccupazione di Pechino è che la violenza terroristica in Afghanistan non si riversi soprattutto nel Pakistan - mettendo in pericolo il corridoio economico Cina-Pakistan (CPEC), il suo progetto di punta BRI in Pakistan - o in Asia centrale". E' questo quadro che determina l'approfondimento della collaborazione sul fronte sicurezza tra i due Paesi, anche sotto forma di pattugliamenti congiunti tra forze di polizia lungo il confine. Significativa è la nomina, avvenuta nel gennaio del 2018, di Liu Jinsong ad ambasciatore della Repubblica Popolare in Afghanistan, perché si tratta di un ex direttore del Silk Road Fund, creato appositamente da Pechino per finanziare i progetti lungo le nuove vie della seta.